BADWATER 135

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Storie Gare

BADWATER 135

HOW BAD DO I WANT IT?

La maglia a manica lunga che Filippo ha indossato per la maggior parte della gara è finalmente disponibile.

SOLO tramite Pre-Order: dal 5 al 12 Novembre. 


Questa volta non so neanche da dove cominciare tanto l’avventura è stata complessa.

Forse è meglio farlo dai motivi che mi hanno spinto a cercare di iscrivermi alla Badwater, “la gara più dura al mondo”.

Odio il caldo e amo fare le gare senza dirlo a nessuno e, soprattutto, senza coinvolgere nessuno.

La Badwater, invece, parte nel punto più basso del continente americano, il Badwater Basin, un lago salato a 85,5 metri sotto il livello del mare, il punto esatto dove è stata registrata la temperatura più alta sulla terra (54°C il 30 luglio 2013). A luglio le temperature sono così alte che non sono previsti ristori e punti di sosta e i concorrenti sono obbligati ad avere una macchina di supporto con almeno due guidatori per tutte le 135 miglia della gara (217 chilometri) fino a dove finisce la strada che sale sulle granitiche pareti del monte Whitney, il monte più alto degli Stati Uniti (ad eccezione del Denali in Alaska), a più di 2.500 metri sul livello del mare.

Allora perché ho compilato tutti i documenti e fornito tutti i dati delle mie prestazioni degli ultimi 15 anni per poter essere ammesso a parteciparvi?

Non lo so ancora con precisione, forse la voglia di partecipare ad una gara storica che esiste da 47 anni e che è stata corsa dai pionieri del nostro sport come Scott Jurek e Dean Karnazes, forse la necessità di cimentarmi ancora una volta con qualcosa di nuovo e più grande di me, forse per trovare nuovi stimoli nei miei allenamenti, o forse, semplicemente, per capire quanto ancora sono capace di soffrire.

Praticamente il giorno di inizio febbraio in cui ho ricevuto l’e-mail con la conferma che sarò tra i cento atleti selezionati da tutto il mondo per poter partecipare, alla fine di un allenamento il mio ginocchio sinistro, che non ha mai avuto nulla, incomincia improvvisamente a fare un male assurdo. È un dolore nuovo che non ho mai provato e ne ho provati tanti in questi anni. Faccio subito una risonanza e scopro che le ossa possono far male anche senza rompersi. Edema osseo è il responso.

Mi dico che tanto c’è ancora tempo ed è meglio fermarsi subito che doverlo fare a poco dalla gara. Sto fermo per più di un mese, il periodo più lungo da quando faccio sport, ma il dolore non accenna a diminuire e ogni volta che carico il peso sulla gamba sinistra un bruciore intenso mi lancia una fitta diretta nel cervello. Sono troppo impaziente e ricomincio gradualmente a muovermi caricando tutto sulla gamba destra. Piano, piano il mio corpo trova un nuovo equilibrio e nonostante il dolore riesco a riprendere gli allenamenti: 19, 56, 89, 75, 58, 96 Km a settimana poi 7 giorni di pausa per capire se posso andare avanti così. Il mio piano gare di avvicinamento è saltato completamente, secondo le previsioni avrei già dovuto fare dei lunghi invece non riesco a fare altro che tanti piccoli allenamenti corti, diversi dei quali sul tapis roulant, in salita mi dà meno fastidio e almeno comincio a simulare un ambiente più caldo visto che a Milano ha fatto la primavera più fredda del “secolo”. Provo a fare il Trail dei Castelli Bruciati che non ha molto dislivello ed è piuttosto corribile, sul piano e in salita tengo il ritmo ma in discesa mi passano, arrivo terzo. Ad ogni modo, con sofferenza, i chilometri cominciano ad accumularsi nelle gambe. Volevo fare la Nove Colli Running che, come preparazioni alla Badwater, sarebbe stata perfetta ma opto per la corta Quattro Colli. Non sarei stato in grado di fare la lunga. Per fortuna, almeno mia, becchiamo l’unica giornata calda di tutto maggio. Arrivo terzo al Barbotto distrutto ma consapevole di aver fatto un buon allenamento. Provo ad iscrivermi al Passatore ma non accettano iscrizioni tardive.

Ormai mancano meno di due mesi e quelle belle giornate afose con caldo torrido di giugno non accennano a presentarsi. Mentre a Badwater le temperature cominciano a salire vertiginosamente superando i 45°C, in Lombardia non superiamo i 25°C.

Esco a correre nelle ore più calde ma il caldo è ridicolo. Le mie preoccupazioni aumentano, ho bisogno di un piano #cazzomannaggia per riacquistare un po’ di fiducia di potercela fare. Faccio un lungo da solo di 70 chilometri sulla Martesana e mi faccio lasciare a Busalla a 60 chilometri da casa di mia nonna tutti i fine settimana che riusciamo a fuggire da Milano, ma anche questi allenamenti “lunghi” mi sembrano insignificanti rispetto ai 217 Km della gara. Non corro bene, il dolore è sempre acceso, ma devo fare di meglio se voglio farcela. Riesco a fare un paio di settimane da 120 km ma il ginocchio ricomincia a peggiorare.

Abbiamo già prenotato tutto, voli, macchina, motel, ho coinvolto il mio amico Giuliano come crew, insomma non si può più tornare indietro. Le e-mail del direttore gara Chris Kostman continuano ad arrivare minacciose, piene di moniti sulla preparazione e sulle regole da seguire per poter partecipare. La gara si presenta già molto complessa prima della partenza e non so ancora cosa mi aspetterà…

Dalla disperazione partecipo alla 24 ore di Saronno in pista: il piano è quello di fare almeno 115 km, la prima parte più corribile delle Badwater, ad un buon ritmo e poi vedere cosa succede. Succede che, prima del centesimo chilometro, il mio stomaco smette di funzionare, la mia solita nausea mi impedisce di mangiare e mi impone di limitare anche i liquidi. Chiudo ancora terzo con poco più di 184 chilometri di cui quasi 80 camminati. Sono contento di aver tenuto duro e di aver attivato il metabolismo dei grassi ma per due giorni faccio fatica a mangiare. Il mio stomaco è come le mie borracce vuote.

Badwater135 Hand Bottles

Qualche chilometro l’ho fatto, ora è il caldo a preoccuparmi, un’ondata di caldo “anomalo” sta investendo la California e il Nevada e la temperatura di Badwater raggiunge già i 49°C.

Faccio un abbonamento di un mese in palestra spiegando che mi serve solo la sauna. Ci vado due o tre volte a settimana fino a resistere per un’ora a 80°C in quattro sessioni da 15 minuti.

Finalmente si parte e posso rilassarmi un attimo.

Il relax dura molto poco perché appena atterriamo a Charlotte nella Carolina del Nord è il caos assoluto, il tabellone dei voli in partenza lampeggia come un albero di Natale, tutti i voli sono in ritardo o cancellati. Sembra che American Airlines sia stata la compagnia aerea più colpita dal crash dei server Microsoft (grazie Microsoft, viva Apple!).
Cerchiamo di stare calmi ma gli avvisi riguardanti lo spostamento dell’orario di partenza o di gate del nostro volo ci arrivano ogni 15 minuti (ne conteremo 114 in 26 ore). I nostri bagagli con le borse con tutta la nostra vita dentro sono ostaggio dell’aeroporto, non possiamo fare altro che aspettare di partire. Passiamo una notte e un giorno chiusi in un aeroporto con l’aria condizionata a 15° mangiando junk food, anche per andare in bagno c’è un’ora di fila. La notte pagata in hotel a Las Vegas è andata.

Comincio a disperami, mentre è in corso il meeting pre-gara obbligatorio per il ritiro del pettorale noi siamo ancora a 4000 chilometri di distanza. Scrivo al direttorissimo Chris Kostman, avvisandolo della situazione e ci risponde che se non arriviamo entro le undici del giorno della gara non posso partire. In un certo senso mi sento quasi sollevato quando penso che, visto che l’organizzazione non offre supporto durante la gara, possiamo farcela in autonomia per i fatti nostri, una bella versione “unofficial” mi sembra la degna conclusione di questa avventura. Dopo l’ennesimo rinvio sembra che il nostro volo sia pronto per partire.

Heat Record USA July 2024

Arriviamo a Las Vegas che è già sera e andiamo a ritirare il minivan che ho prenotato specificando che fosse di colore bianco. Ce ne viene consegnato uno nero con il tetto in vetro nero che già scotta ma sono troppo stanco per discutere e dobbiamo correre a fare la spesa per la gara di domani. Raccattiamo cose a caso in un discount e ci dirigiamo al nostro motel nella Valle della Morte. L’indicatore dalla temperatura in gradi Fahrenheit segna dei numeri per noi incomprensibili che continuano a salire man mano che ci avviciniamo. Finalmente intorno a mezzanotte arriviamo a Stovepipe Wells, vediamo prima la stazione di servizio con un piccolo store, il campeggio deserto e qualche costruzione di legno. Scendiamo dalla macchina per cercare la reception e ci scontriamo per la prima volta con il “mostro”.

L’aria è così calda che è irrespirabile, sembra di essere in un grande forno con la porta aperta. Il vento soffia costante e sembra togliere tutto l’ossigeno dall’atmosfera. Irene non smette di ridere in preda ad una crisi isterica. Cecilia vuole tornare in macchina, Giuliano continua a camminare in cerchio come in trance. Io mi cago addosso per quello che mi aspetta domani. Ho già provato il caldo, alla Marathon des Sables, alla Western States, alla Spartathlon, negli ultimi chilometri delle Transgrancanaria o al Gran Raid de la Réunion, ma nulla è lontanamente paragonabile a quella sensazione di non aver scampo, di non poter sopravvivere all’esterno. Una sensazione che non scorderò mai.

Cerchiamo di scherzarci su mentre ci dirigiamo alle camere, nonostante il condizionatore al massimo tutto è caldo anche nella stanza. Vogliamo solo farci una doccia e andare a letto per non pensarci. Si, la doccia, smanetto con il miscelatore che credo rotto e che invece funziona benissimo solo che anche l’acqua fredda è a 50°C e scotta. Almeno non dobbiamo usare il phon, basta uscire due minuti dalla porta e siamo asciutti. Tutti dormono, ma io non ci riesco e faccio due passi fuori. Il paesaggio illuminato dalla luna quasi piena è meraviglioso e spettrale allo stesso tempo, non c’è nulla se non distese di sabbia modellata dal vento e terra bruciata dal sole, la sola vegetazione che resiste è bassa e piena di spine.

General Store Badwater

Facciamo colazione in un vecchio saloon e cerchiamo di fare il punto della situazione, poi con l’ansia a manetta, andiamo a Lone Pine per ritirare il pettorale e incontrare il direttore Chris che ci fa subito notare che siamo gli unici che non si sono presentati al meeting, gli dimostro che siamo pronti lo stesso elencandogli a memoria le 5 pagine di regole della gara, per fortuna il nostro materiale obbligatorio supera i suoi severi controlli. Grazie Emilia e Simone per le maglie super catarifrangenti che ci avete prestato!

Nella seconda parte di gara, quella dal nostro motel a Lone Pine sembra fare meno caldo e questo ci rincuora molto. Ritiriamo i sacchi per il cagotto (vedi su internet BiffyBag) e la terza maglia catarifrangente obbligatoria che abbiamo dovuto comprare e ce ne torniamo ad organizzare la macchina.

Giusto il tempo di addobbare la macchina e preparare i contenitori termici, uno per il ghiaccio da bere e uno per refrigerare le altre bevande con il ghiaccio per il cappello e la bandana, e fare un minimo di briefing tra di noi che è ora di dirigerci alla partenza, prima dello start abbiamo già percorso più di seicento chilometri in macchina il giorno stesso della gara e siamo già provati.

Mentre ci avviciniamo al bacino di Badwater incontriamo i concorrenti partiti nelle waves delle 20 e delle 21, noi siamo, nella ultima partenza delle 22. Ho tentato di farmi cambiare l’orario di partenza stabilita dall’insindacabile giudizio del direttorissimo ma non c’è stato nulla da fare: ahimè sono in mezzo a quelli che corrono forte.

Mentre scendiamo nella valle della morte l’indicatore della temperatura passa da 115 a 120° gradi Fahrenheit, non sappiamo bene a cosa corrisponde ma quando scendiamo dalla macchina l’aria è irrespirabile. Mi vengono in mente le parole di Scott Jurek quando vi ha partecipato: “mi ritrovai con i peli del naso bruciacchiati”

Le balaustre metalliche che separano il parcheggio dalla piazzola dove solo i concorrenti sono autorizzati ad andare non si possono toccare, sono roventi.

Quando vediamo le macchine super attrezzate degli altri concorrenti ci prende un po’ di sconforto. Sul percorso non c’è praticamente copertura telefonica e molti hanno un telefono satellitare per le emergenze e delle radio walkie/talkie per le comunicazioni tra concorrente e crew. Il loro bagagliaio sembra perfettamente organizzato per ogni evenienza e noi sembriamo dei turisti in vacanza.

Questa volta il “Drago” è di quelli grossi, non lo nascondo, ho cercato di analizzare il comportamento di chi l’ha già affrontato. Dai rilevamenti cronometrici sembra che tutti sfruttino la notte e la prima parte  quasi “pianeggiante” per correre ad un buon ritmo fino al sessantasettesimo chilometro di Stovepipe, affrontino correndo la prima salita al Towne Pass (+1500 m in 26 km), corrano veloce la discesa (l’unica) verso Panamint Spring, dove a più di metà gara rallentino, immagino per il caldo, sulla secondo salita (700 D+ in 13 km), per poi riprendere a correre anche se più lentamente fino a Lone Pine al duecentesimo chilometro, per poi camminare la salita di 1500 m D+ al monte Whitney dove complice la seconda notte dovrebbe essere più fresco.

Badwater elavation profil

Sulla carta sembra tutto chiaro e piuttosto semplice, come continuo a ripetere, minimizzando le difficoltà, alla mia crew che sembra sempre più preoccupata. Devo essere sincero sono più preoccupato per loro che per me.

Ma oramai è inutile pensarci, siamo arrivati fin lì ed è tempo di partire, controllo del peso, foto di rito, inno nazionale. Questa è la parte che preferisco dell'ultrarunning, dopo mesi di preparazione, studio del percorso, reperimento delle informazioni, attenzione agli allenamenti, all’alimentazione (ad eccezione degli ultimi due giorni) finalmente non mi resta che correre senza pensare a cosa avrei potuto fare di meglio.

Comincio a capire che i conti non tornano quando Harvey Lewis, la star della gara, si assenta dalla linea di partenza e ritorna all’ultimo secondo tutto bagnato e con una bandana piena di ghiaccio al collo. Lui ha già terminato la gara dodici volte e nei video su YouTube non l’ho mai visto partire già con il ghiaccio. Preso dal panico, mentre risaliamo dal bacino dopo lo start urlo alla mia crew “bandana con ghiaccio al primo stop” rovinando l’audio di tutti i video della partenza di tutti i concorrenti.

Photos by Manny Olivo

Tutti partono correndo ad un ritmo sostenuto, avvalorando la mia strategia di correre veloce la prima parte, cerco di stare calmo e di capire una situazione tanto assurda quanto nuova per me, ma sono troppo stordito per fare una valutazione obiettiva, imposto la velocità che secondo le mie assurde elucubrazioni mentali, basate sui miei tempi della Spartathlon e della Sakura Michi, avrei dovuto tenere: 11 Km/h, circa 5’30” al Km.

Abbiamo stabilito di vederci ogni 5 km, puntali Irene e Giuliano mi aspettano sul lato sinistro della strada con le loro maglie gialle fosforescenti con i catarifrangenti e le luci a led lampeggianti avendo ben parcheggiato la macchina sul lato destro, con tutte le ruote fuori dalla linea bianca con le quattro frecce e i fari spenti come recita una delle tante regole da seguire. Metto la bandana con il ghiaccio al collo, faccio rifornimento di acqua e riparto immediatamente dimenticandomi di dirgli cosa preparare per la prossima sosta. Devo ricordarmi di comunicare di volta in volta cosa organizzare alla sosta successiva per evitare che si stressino troppo. Dopo 5 km veloce rifornimento e comunico che è meglio avere anche il ghiaccio nel cappello perché la testa mi sta bollendo e comincia a fare male. Sempre le parole di Scott Jurek mi suonano in testa: “mi sentivo come se un ferro rovente mi stesse marcando il cranio dall’interno”.

Chiedo dei sali anche se non capisco se sto sudando o meno. Fa così caldo che tutto si asciuga immediatamente. Ho letto molto sull’assunzione di sali ed elettroliti, ma non avendoli mai usati non so bene come fare.

Non riesco a valutare bene lo sforzo che faccio in rapporto alla velocità che tengo perché il temibile vento bollente mi soffia esattamente in faccia e non riesco a capire se sto correndo in salita o discesa. Le pendenze della strada sono minime ma mai in piano e di notte è molto difficile interpretarle.

Allo stop successivo metto anche il mio endurance hat con il ghiaccio e riparto con la borraccia a mano con i sali. Di solito il ghiaccio nel cappello fa male per il freddo nei primi minuti, qui continuo a controllare se ci sia nel cappello perché non sento nessun beneficio.

Recupero qualche posizione ma altri mi passano a velocità folle, non riesco a capire se stia raggiungendo quelli partiti un’ora prima o se siano atleti partiti insieme a me. La situazione è abbastanza confusa e caotica e non mi aiuta ad interpretare il mio operato.

Al primo check-point di Furnace Creek (che nome evocativo!) mi sembra già di essere in ritardo sul mio piano di battaglia. Con un colpo da maestra Irene riesce ad acquistare un paio di sacchetti di ghiaccio senza che io debba perdere il contatto con la macchina, intuisce che di ghiaccio ne avremo bisogno più del previsto. Tutto il mio corpo si sta surriscaldando, chiedo di ridurre la distanza tra le soste, quando non vedo la macchina mi sento perso e in pericolo. Mi gioco il jolly della seconda borraccia con ghiaccio per bagnarmi oltre alla bandana e al cappello pieni di ghiaccio. Avevo pensato di usarla solo dopo la comparsa del sole. È l’una di notte, dovrebbero essere le ore meno calde ma la temperatura non accenna a scendere, e io sto già usando tutte le mie armi per abbassare quella del mio corpo.

Non riesco a mangiare molto ma l’idratazione che mi preoccupava tanto mi sembra funzionare. Invece ho delle crisi di sonno mai provate. Di solito, nelle gare lunghe, come la PTL, non dormo mai le prime due notti, qui barcollo e faccio fatica a seguire la linea bianca sulla strada già la prima notte. Non me ne rendo neanche conto ma sto rallentando, al 34° mi siedo qualche minuto sul bagagliaio della macchina, qualcosa non sta funzionando. Continuo a guardare le quattro frecce lampeggianti delle macchine in sosta in cerca della mia e quelle luci rosse che si accendono e spengono nel buio della notte mi stanno mandando fuori di testa. Sono preoccupato perché nella macchina non stanno dormendo e se riduco la distanza tra le soste sarà ancora più difficile che ci riescano.

Nei mesi precedenti alla gara ho cercato di prepararmi mentalmente a tutto questo immaginando quanto più possibile nei dettagli quello che avrei vissuto ma in questo caso la realtà ha superato di gran lunga la mia fantasia. È come se tutti gli allenamenti, le ore nella sauna, tutti i messaggi di incitamento dei miei amici, la voglia di non sfigurare agli occhi di mia figlia fossero svaniti come un cubetto di ghiaccio su questo asfalto bollente: non mi ricordo nulla.

Una grande stanchezza si sta impossessando del mio corpo, cerco di reagire ma più spingo, più le mie condizioni sembrano peggiorare, non sono per niente lucido. Provo a fare una pausa per cercare di mangiare qualcosa, quando una fortissima nausea mi costringe a vomitare il boccone che ho in bocca, i conati sono così forti che mi esce il sangue dal naso. Una scena che avrei tanto voluto risparmiare ai miei famigliari e amici. Temevo che sarebbe successo ma speravo che questo momento sarebbe arrivato intorno al centesimo chilometro e non al trentasettesimo! Affranto e incazzato mi rialzo e riparto. Lo stomaco è vuoto ma dopo essersi liberato mi da tregua per qualche chilometro. Continuo a tirare su con il naso, non voglio che quelli dell’organizzazione mi vedano con il sangue sulla maglietta e magari mi fermino ad un controllo medico. Mi verso dell’acqua nel palmo della mano e la inalo dal naso per cercare di respirare. In gola ho un grumo di sangue e sabbia e faccio fatica a deglutire. Vado avanti per qualche chilometro in queste condizioni ma le crisi di sonno mi stanno spegnendo a poco a poco. È come se il mio cervello avesse inventato un nuovo stratagemma per farmi fermare.

Pensavo di essere pronto a tutto ma non mi ero minimante preparato a queste crisi di sonno. Mi sento vecchio e stanco. Lo stratagemma del mio cervello funziona, al 44° mi accascio e mi addormento. Non so quanto ho dormito ma il sonno non mi abbandona, avanzo per qualche chilometro ma mi devo fermare ancora, appena mi siedo mi addormento. Sono così amareggiato e dispiaciuto per non riuscire a fare meglio di così per la mia crew che al check-point di Stovepipe Weels (67° Km) ho una crisi di pianto irrefrenabile.

Mi dispiace tantissimo per chi mi sta vicino e sono disposto a ritirarmi pur di non continuare con lo stillicidio a cui li sto sottoponendo. Mentre piango sul sedile della macchina, Giuliano si è cambiato ed è pronto ad accompagnarmi fino al prossimo check-point dell’ottantaquattresimo chilometro dove il cancello orario è fissato per le 10:00, due ore in meno per noi che siamo partiti alle 22:00. È venuto fino a qui per aiutarmi e per condividere qualche chilometro di quegli interminabili rettilinei. Non credo di riuscire a passare la barriera orario, il mio stomaco è come le mie borracce vuote, ma il suo entusiasmo gentile mi impone di provarci. È la prima volta in vita mia che lotto per passare un cancello orario e la salita benché lieve mi sembra insormontabile, il sole è già sorto e comincia a cuocere la nostra schiena.

Photos by Manny Olivo

Chris, il direttorissimo, è lì a controllare e sono sicuro che abbia scommesso con qualcuno dei suoi, sul fatto che io non sarei arrivato in tempo, quando con qualche minuto di anticipo sulla barriera oraria io e Giuliano gli passiamo davanti.

Il mio stomaco è ancora fuori servizio ma quel piccolo traguardo ci riempie di gioia, ci fermiamo per una lunga pausa, senza guardare l’orologio, e ci ricompattiamo. Ora, io e la crew sia un tutt’uno, li vedo mangiare qualche fetta del buonissimo prosciutto portato da Giuliano da Piacenza e mi sembra che l’umore generale stia risalendo, un velo di ottimismo si disegna sui loro volti.

La crew accetta la mia debolezza e io mi sento più sollevato.

Sappiamo che la strada è ancora lunga, lunghissima e che la temperatura continuerà a salire ma piano piano possiamo tentare di farcela. Tutti i miei piani sono saltati ma ripartiamo per una nuova avventura.

La salita al Towne Pass è molto lunga ma abituato alle salite delle gare di trail running il mio passo è più svelto di quello degli altri concorrenti, recupero qualche posizione e insieme ad esse un filo di ottimismo. Una ragazza dello staff in macchina ci avverte di coprirci in cima al passo. Non faccio in tempo ad immaginare una meravigliosa brezza (breeze) fresca che mi invaderà non appena sarò sulla sommità che uno sciame di api (bees) mi ronza intorno senza lasciarmi la possibilità di respirare. Convinto che dall’altra parte faccia meno caldo, mi sono lasciato suggestionare e ho frainteso l’avvertimento. È inutile cercare di scacciarle sono troppe, l’unica è mantenere la calma, chiudere la veletta che ho messo sopra il cappello per ripararmi dal sole e sperare che correndo in discesa si stanchino di seguirmi. La situazione è abbastanza grottesca, ci mancavano giusto le api, penso che sia stata una trovata di Chris per rendere la gara più dura. Per fortuna ho la maglia a maniche lunghe che continuo a tenere bagnata che mi protegge (ho fatto una maglia con il tessuto Race e la scritta NOT NOW a maniche lunghe che si è rivelata ottima sia come protezione dal sole sia come freschezza)

Dopo il passo c’è l’unica vera discesa della gara, circa 1000 m di dislivello negativo in poco meno di venti chilometri, la corro quasi tutta, con rabbia, finalmente sento che il mio avanzare ha un senso. Man, mano che scendo sento il caldo che sale dalla valle, che mi abbraccia e lambisce tutte le parti del mio corpo, anche l’aria generata dal mio movimento è bollente. I quadricipiti che dovrebbero essere abituati alle discese, bruciano e si stanno squagliando come burro al sole. Temo che probabilmente a causa della mancanza di calorie il mio fisico oltre a bruciare i grassi si sia mangiato anche qualche proteina dei miei muscoli.

Arrivo in fondo alla discesa che sono ancora più confuso, doveva fare meno caldo e, invece, mi sembra manchi l’aria da respirare, doveva essere la parte più corribile e ho le gambe talmente a pezzi che fatico a correre il pezzo in piano che separa la fine della discesa dalla salita successiva. In macchina sembrava un pezzo corribile e il giorno prima la temperatura era quasi accettabile. È un duro colpo per il mio umore, guardo i dati sul mio Coros (ho al piede anche un pod che misura la temperatura) e per la prima volta da quando siamo partiti vedo la schermata della temperatura indicare 50°C. Il caldo è opprimente, assurdamente claustrofobico in piena contrapposizione con il paesaggio aperto e ampio della vallata. Mi rendo conto di essere indifeso in questo ambiente e che la mia autonomia è limitata a quanto mi dura il litro d’acqua che mi riesco a portare dietro: poche decine di minuti. Mi rendo conto di quanto sia diverso correre a 40° e correre, invece, a 50°.

Photos by Manny Olivo

Abbiamo, si perché oramai la nostra è diventata un’azione collettiva e non più individuale, l’obiettivo di arrivare a Panamint Spring dove fare benzina, rifornimento di ghiaccio e cercare del cibo per la crew. Faccio andare avanti la macchina e cammino i tre chilometri di salita per arrivare alla stazione di servizio. Quando arrivo capisco che c’è qualcosa che non quadra, Giuliano sta facendo benzina da solo, Cecilia è al telefono (povera, l’unico punto in cui prende), Irene corre, come una milanese all’ora di punta, dal minimarket al ristorante e dal ristorante al minimarket urlando che hanno finito il ghiaccio. È seriamente preoccupata perché il prossimo punto di rifornimento è a 80 chilometri. Non ne possono più di stare in macchina ma in entrambi i posti non c’è aria condizionata ed è impossibile sostare. Invece io sono abbastanza calmo e lucido, contento di aver faticosamente superato la metà gara, con i miei 10$ di emergenza torno alla stazione di servizio per comprarmi un gelato e dell’acqua. Quando vedono che un concorrente si sta comprando da mangiare da solo, le altre crew fanno a gara per offrirmi la merenda. Felice come un bambino che ha risparmiato la paghetta mi siedo all’ombra a mangiare il gelato e a sorseggiare l’acqua fresca mentre cerco di capire dove sono gli altri. Non li vedo più, raggiungo la macchina e mi cambio le scarpe. Le mie Diadora Cellula, hanno retto meravigliosamente fin qui ma nell’ultimo tratto di discesa l’intersuola si è leggermente sciolta, potrebbero continuare ma avendo un altro paio di scarpe, me le cambio insieme alle calze. Sono pronto a ripartire ma non vedo nessuno della mia crew. Li vado a cercare e li avviso che comincio ad incamminarmi per la salita del Father Crowley, tredici chilometri in cui la macchina può sostare a causa della tortuosità della strada solo in otto postazioni designate dall’organizzazione. Salgo lento ma costante, la serata è calma e il traffico sul passo inesistente, per la prima volta da quando sono partito mi godo il paesaggio e il tramonto con i lampi di un temporale in lontananza. Stiamo centellinando il ghiaccio rimasto ma al momento non mi sembra un grave problema.

Sull’asfalto vedo i tipici segni a serpentina di chi fa la pipì senza fermarsi, un tempo la facevo anch’io così per non farmi raggiungere dal secondo o dal terzo, ora per farla mi siedo sul predellino della portiera o nel bagagliaio della macchina, come sono caduto in basso...

Giuliano mi scorta negli ultimi tornanti dove speriamo di ritrovare la macchina ad ogni curva che, invece, non vediamo più.

A secco di acqua arriviamo al passo e troviamo tutte le auto delle crew che aspettano i loro runners, siamo una ventina a procedere più o meno dello stesso passo e oramai ci conosciamo e salutiamo ogni volta che ci incontriamo come una carovana che avanza ad intermittenza lentamente verso un invisibile punto sopra una montagna. Irene riesce a farsi dare un mezzo sacchetto di ghiaccio dall’ambulanza che segue la carovana.

Anche la seconda notte mi coglie impreparato, non riesco a capire come sia possibile ma ho ancora sonno nonostante tutto il tempo in cui ho dormito.

Mi spruzzo l’acqua gelata in faccia per cercare di tenermi sveglio ma non funziona e dopo un paio di volte che finisco in quei maledetti cespugli spinosi che costeggiano la strada faccio una sosta e mi addormento. Nella notte dal cielo nuvoloso che mi impedisce di vedere la luna piena cadono quattro gocce, che sembrano calde pure loro, il cui unico effetto è quello di alzare il tasso di umidità e rendere l’aria ancora più irrespirabile rilasciando un odore gommoso dall’asfalto.

Mi sforzo di mangiare un boccone ogni cinque chilometri e complice una leggera discesa riesco a tenere un ritmo decente. Ogni volta che arrivo alla macchina nel buio della notte mi piange il cuore. Li vedo dormire sui sedili nel buio della notte ma purtroppo quando la macchina si ferma le porte si bloccano e quando sveglio il povero Giuliano che mi apre il portellone del bagagliaio tutte le luci si accendono e la macchina si illumina a giorno rendendo il loro sonno impossibile. N.B: la prossima volta, ricordarsi di sbloccare la chiusura centralizzata e disattivare l’illuminazione all’apertura delle porte.

Mi spiace tanto per loro ma voglio approfittare di questo momento per fare più chilometri possibili. In effetti sto abbastanza bene e con le ultime forze voglio correre fino a Lone Pine.

Quando siamo ad una quindicina di chilometri dal paese l’incubo di chiunque attraversi la Death Valley si materializza sotto forma di una spia arancione sul cruscotto, quella della pressione degli pneumatici. Temevo molto questo momento. (saprò solo alla fine che anche quella dell’olio si era già accesa). Senza perdere tempo Giuliano si prepara per correre con me, carichiamo il suo zaino e prendiamo tutte le borracce che riusciamo a portare e salutiamo Irene e Cecilia che se ne vanno cercando di raggiungere una stazione di servizio prima che la gomma anteriore sinistra si sgonfi del tutto.

Photos by Mike Trimpe

Siamo soli sull’infinito rettilineo che ci separa da Lone Pine, la temperatura continua a salire e ci sembra già insopportabile. Per la prima volta da quando siamo partiti Giuliano sembra accusare il colpo e sono io a scherzarci su.

Centelliniamo i liquidi con piccoli ma frequenti sorsi e smetto di bagnarmi la testa e le spalle per non sprecare neanche una goccia. Siamo pronti ad elemosinare dell’acqua a un’altra crew, quando tra le onde di calore dell’asfalto scorgiamo la sagoma nera con il numero 93 della nostra macchina. Ci fiondiamo nel bagagliaio e anche per questa volta siamo salvi. La gomma non era bucata, il gommista l’ha smontata, controllata e rigonfiata dice Irene, ma a noi importa solo di ingurgitare liquidi anche se non più freschi. Giusto il tempo di girare la macchina nella giusta direzione e la spia si riaccende. Probabilmente il gommista è stato distratto dalle ciabatte con il pelo di Cecilia e non ha fatto bene il suo lavoro. Irene senza pensarci due volte riparte per tornare dal gommista.

Gomma bucata alla Badwater

Siamo di nuovo soli ma il paese è più vicino, quando svoltiamo sulla statale il traffico di camion e macchine ci stordisce dopo tutto il silenzio della valle della morte. Fino a questo memento non mi ero reso conto di quanta pace ci fosse in quel luogo così inospitale. Lentamente raggiungiamo il penultimo punto di controllo dove vedo i tempi dei vincitori e non riesco a comprendere come abbiano fatto a correre così veloci in quelle condizioni. La mia ammirazione nei loro confronti è sconfinata.

Noi siamo cotti, non abbiamo notizie da Irene e prima di affrontare l’ultima salita ci fiondiamo nell’unico supermercato di Lone Pine, dove ironia della sorte due enormi freezer pieni di sacchi di ghiaccio ci accolgono all’entrate. Ora, non ce ne facciamo più nulla, prendiamo uno schifosissimo gelato e facciamo il pieno di liquidi che nei cinque minuti in cui ci sediamo per mangiare il gelato si scaldano immediatamente. Ma non importa sono curioso di vedere la variante “trail” del cambio di percorso dovuto alla distruzione della strada in seguito all’alluvione di novembre (nota per i negazionisti del cambiamento climatico, fatevi un giro da queste parti per capire cosa sta succedendo).

Giuliano (giustamente) è provato, io voglio solo arrivare e vedere la faccia di Chris in cima alla montagna. Il trail ci viene annunciato come tecnico e di fare attenzione, complice la tensione che si sta sciogliendo man mano che ci avviciniamo al traguardo ci mettiamo a scherzare su quanto sia “tecnico” il sentiero rispetto ad alcuni passaggi dei trail del Ferriere Trail Festival organizzato da Giuliano e ci viene da ridere.

Finito il percorso sterrato, dove abbiamo superato un concorrente giapponese e il suo pacer, il nostro momento di ilarità si schianta sulla dura realtà della salita su asfalto senza macchina di supporto. Vaghiamo in mezzo alla carreggiata quando a tutta velocità e con una gomma nuova Irene ci viene in contro suonando il clacson.

Photos by Mike Trimpe

Giuliano si siede in quello che è stato il mio posto per tutto il tempo nel bagagliaio e trangugia una delle ultime lattine di Schweppes, quella che abbiamo eletto come top bevanda dell’intero viaggio. Anche se non scorgiamo la strada che sale sulla montagna, sappiamo che non manca molto e che nulla ci può fermare, neanche una gomma bucata. Abbiamo iniziato insieme quest’avventura e insieme la finiremo.

Dietro una curva vediamo Harvey Lewis che ci corre incontro in pieno runner’s high. Ma come è possibile lui che era tra i favoriti che cosa ci fa qui e perché sta scendendo di corsa? Ci dice che si è dovuto fermare a dormire e che è ripartito il giorno dopo ma che è stata un’esperienza incredibile e che si augura che lo sia anche per noi. Scopriremo il giorno dopo che, in pieno stile #cazzomannaggia, non contento della sua gara aveva deciso di ritornare a piedi a Badwater. Harvey uno di noi!

La salita che mi ero immaginato di fare durante la prima notte secondo i miei piani, per quanto dura è una pura formalità. Lascio andare la macchina ad attenderci all’arrivo. Di buon passo concludiamo la nostra avventura tagliando il traguardo tutti e quattro insieme come da tradizione sotto gli occhi increduli di Chris che non riesce a capacitarsi di come Ceci abbia potuto attraversare la valle della morte con delle ciabatte con il pelo. A me sembra il degno sfregio per non aver creduto in noi

Photos by Chris Kostman and Erika Small

Il direttorissimo aveva ragione che forse è la gara più dura la mondo. Quando scherzando glielo dico sulla linea del traguardo, con il suo volto impassibile mi risponde: “I know.”

Sicuramente ci sono gare più lunghe, gare con maggiore dislivello positivo o su terreni più tecnici, ma nulla è paragonabile alla Badwater135: non c’è nessuna via di fuga dal caldo.

Photos by Chris Kostman and Erika Small

Volevo arrivare sfinito, distrutto dopo aver dato tutto quello che avevo in quella che probabilmente sarà una delle mie ultime gare lunghe; invece, a mezzanotte sono ancora in piedi, senza mal di gambe che mi aggiro con Cecilia per le strade deserte di Lone Pine cercando di capire dove e cosa ho sbagliato.

Per finire in bellezza, il nostro volo di ritorno viene posticipato alla sera e parte con poco carburante perché per il caldo eccesivo rischia di non riuscire a decollare da Las Vegas. Faremo rifornimento a Calgary in Canada e perderemo la coincidenza a Francoforte. Mi fa piacere di non essere l’unico ad avere delle difficoltà con il caldo.

Nel 2024 la percentuale di finisher è stata del 76.3% rispetto alla media del 82%

Mi sta salendo la carogna di rifarla ma non so se potrebbe essere un’esperienza condivisa come questa.

Sono senza un obiettivo. E adesso cosa faccio? Si accettano consigli nei commenti.

PS: alla fine, dopo 8 mesi, ho scoperto con una nuova risonanza magnetica che più che l'edema osseo era il menisco che si era ripegato verso l'osso a causarmi quel dolore. Il 9/10/2024 ho subito un intervento per sistemarlo.

QUI IL VIDEO COMPLETO (attenzione immagini forti!)

Badwater 135 YouTube Video

Ho sempre pensato che la corsa fosse uno sport individuale ma questa volta senza il supporto di Giuliano, Irene e Cecilia non ce l’avrei mai fatta!

Photos by Chris Kostman and Erika Small

Ho chiesto loro di descrivere le loro impressioni su quest’avventura collettiva:

GIULIANO

Badwater, infinite sensazioni intense...

La sera della partenza ci trovavamo a Stovepipe Wells che si trova al centro della Death Valley, eravamo impegnatissimi con gli ultimi preparativi prima di raggiungere in auto la partenza, quando improvvisamente si è abbattuta una tempesta di sabbia che ha reso il tramonto ancora più suggestivo, ma nello stesso tempo inquietante per ciò che ci attendeva. Ma questo era solo l'inizio.

A gara in corso molteplici episodi sono stati vissuti come surreali, ma quello che più mi ha segnato e insegnato è stato vedere come ogni qualvolta Filippo attraversasse difficoltà oggettive molto gravi, riuscisse a ritrovare il suo "centro" e proseguire.

Infine, nonostante l'amicizia di lunga data che ci legava a noi tutti membri della crew, aver vissuto qualcosa di così intimo e profondo per più di quaranta ore, ha reso il nostro legame ancora più solido e affidabile.

IRENE

Tic, tic, tic, tic, questo è il suono che ha accompagnato le mie ore della gara di Filippo, è il suono delle quattro frecce dell’auto, nei momenti in cui lo aspettavamo per dargli riparo.

Riparo, assistenza, ridargli la forza. Ho visto tante volte Filippo gareggiare in innumerevoli ambienti e condizioni, l’ho visto concentrato, disperato, agonizzante, combattivo, ma questa volta è stato diverso per un motivo che fino a che non mi ci sono trovata non lo avevo capito; come stava lui dipendeva letteralmente anche da me.

Un lavoro di squadra molto intenso. La mia tendenza a tenere il controllo sulle cose è stata messa veramente a dura prova, tutto doveva funzionare per compiere questa impresa, tutto, le scorte di acqua, di ghiaccio la macchina sempre accesa, la benzina, le distanze da lui, quei pochi centri dove erano presenti viveri, il caldo feroce. Alla seconda notte sveglia ho ceduto ad un paio di paranoie, soprattutto per il ghiaccio che era finito, o forse era un po’ di stanchezza, ma ho capito cosa significa vivere nel qui e ora che tanto viene professato, quelle 40 ore sono state veramente un grande qui e ora per tutti noi.

La soddisfazione di tagliare il traguardo è stata grande, lo abbiamo fatto tutti e 4 insieme tenendoci per mano.

CECILIA

Di quest’esperienza molto particolare ci sono alcune cose che mi hanno colpita: il caldo che è presente a tutte le ore e in tutti i momenti allo stesso modo e la reazione del corpo a quelle temperature sia quella dei corridori che della crew.

Per compensare le nostre emissioni di CO2, anche se questa non è la soluzione, ho fatto una donazione personale in aggiunta a quelle di Wild Tee a Selva Urbana, l'associazione no-profit con cui collaboriamo da 8 anni.

Purtroppo i voli aerei sono un enorme fonte di emissioni di CO2 e queste 50 piante ci metteranno circa 20 anni a compensare il nostro viaggio. Giusto per darvi un'idea, andare e tornare dagli Stati Uniti in 4 con gli scali intermedi emette circa 15 tonnellate di CO2, mentre una pianta ne assorbe 15 Kg all'anno.

Donazione Selva Urbana

Solo per gli amanti delle informazioni tecniche.

Badwater135 Course Map

Durante i 219 km e 5600m D+ di cui 31 ore in movimento e 10 di sosta, ho utilizzato:

-3 maglie della collezione RACE di Wild Tee: uno smanicato,  una T-shirt e una maglia con le maniche lunghe

-1 paio di pantaloncini Bryce 2.0 di Wild Tee

-1 cappello Endurance di Wild Tee e un prototipo di veletta parasole

-2 paia di calze Rockies Wild Tee

-1 Corso Apex 2 Pro con Pod 2 per la misurazione della temperatura

-1 paio di occhiali da sole ANVMA 99 di Alba Optics

-1 paio di Diadora Cellula per 120 Km

-1 paio di Hoka Clifton 9 Wide per 100 Km

-4 Borracce a mano: 1 HydraPak Skyflask Speed, 1 Ultimate Direction AMP, 1 Nathan Quicksquezze e 1 Camelbak Quick Grip Chill (la migliore delle 4)

-ho bevuto circa 20 litri di acqua con 2 bustine di sali e 1 di Maurten e 10 litri di bibite (Coca-Cola, Fanta, Sprite, Ginger Ale, Schweppes, The freddo)

-ho mangiato: 3 barrette, 5 gels, una fetta di pane, 4 Flauti, 2 pacchetti di Crackers, qualche boccone di Beef Jerky, 2 fette di prociutto, 1 pesca, 2 vaschette di frutta sciroppata

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21 commenti

umberto damilano - 23/09/2024 15:26:56


Ho chiacchierato con Cristiano Rollo della sua avventura alla Badwater e di come questa gara sia dura in maniera inimmaginabile anche per gente tosta come voi due. Meriterebbe un film.... pansateci! Siete due fenomeni, di grande ispirazione anche per gente normo-determinata come me....

Alex Tucci - 07/09/2024 08:39:10


Sono 12 anni che corro. Ho letto tanto (mai abbastanza) di storie, aneddoti ed esperienze vissute in giro per il globo grazie al running. Questo racconto lo ricorderò come uno dei più belli. Grazie che per circa 30’ di lettura, mi hai (avete) coinvolto in un viaggio di 40h in uno dei posti e delle gare più assurdi del pianta. Salutoni ❤️

Elena - 05/09/2024 12:38:12


Congratulazioni! Ho letto il Vostro racconto tutto di un fiato: bellissimo!

Matteo Ghezzi - 28/08/2024 09:35:43


Bel racconto! Sono riuscito a seguire un po' la tua gara a distanza tramite il live tracking e Irene. Sei stato veramente grande. Anzi lo siete stati tutti. Ti dirò che mi ha quasi fatto venire voglia di farla. Per fortuna poi di solito rinsavisco e mi passano subito queste idee ? Alla prossima ?

Laura Galli - 26/08/2024 09:21:02


Che racconto e che banda di matti!!! Complimenti davvero. Che tu sia un grande atleta fuori discussione. Ma… il tuo team che dire! Onore al tuo fedele amico che è riuscito a correre in quell’affascinante inferno. Stima totale a Irene per le grandi capacita, il sangue freddo (ossimoro) e il sostegno, in quelle condizioni. Io come Cecilia, uscita per fare rifornimento durante l’assistenza a Stefano e Ray luglio ‘22, sono rientrata in macchina come speedy gonzales. Però non avevo le ciabatte di pelo ? Encomiabili. Un abbraccio. Grazie con affetto Laura! Filippo

Alex Tucci - 19/08/2024 18:03:48


Sono 12 anni che corro. Ho letto tanto (mai abbastanza) di storie, aneddoti ed esperienze vissute in giro per il globo grazie al running. Questo racconto lo ricorderò come uno dei più belli. Grazie che per circa 30’ di lettura, mi hai (avete) coinvolto in un viaggio di 40h in uno dei posti e delle gare più assurdi del pianta. Salutoni ❤️ Grazie Alex, un abbraccio! Filippo

Jérôme Debize - 18/08/2024 09:45:04


Bravo alla team Wild Tee Solo partire con i problemi del viaggio è stato una aventura. Bel racconto, ma non fa publicita per la gara… Il mio stomacho si chiude solo a pensare a correre con piu di 30 gradi… Allora 120F ☀️… Saluti ??

Jérôme Debize - 15/08/2024 20:31:48


Bravo alla team Wild Tee Solo partire con i problemi del viaggio è stato una aventura. Bel racconto, ma non fa publicita per la gara… Il mio stomacho si chiude solo a pensare a correre con piu di 30 gradi… Allora 120F ☀️… Saluti ??

Matteo Locori - 14/08/2024 22:54:03


Che dire Filippo, come sempre hai dato il meglio e portato a casa un’altra super prestazione. Resoconti sempre molto appassionanti e coinvolgenti, da far rendere il lettore partecipe delle tue corse. Ho seguito negli anni, tramite i racconti, tutte le più importanti gare a cui hai partecipato e trovarne di altre non è facile ma forse ti manca di “esplorare” il grande freddo… Visto che dici di non amare tanto il caldo magari a quelle latitudini potresti chiudere il cerchio Buone corse!

Daniel - 14/08/2024 04:31:36


Complimenti ancora! Per bilanciare potresti provare una arctic ultra.. anche se risulterebbe ancora più difficile trovare le condizioni adeguate per allenarti da noi in zona

Maurizio - 13/08/2024 17:52:53


Che dire GRANDE !!!! Non ci sono parole per descrivere questa impresa ! Complimenti anche a chi ti ha seguito!!! Congratulazioni!!!!

Lorenzo - 13/08/2024 11:13:10


Prossimo passo MOAB 240 o TOR

Daniele Carminati - 13/08/2024 10:47:21


Leggere la tua Badwater135 riempie il cuore. Vedo tra l’altro che ti sei portato anche qualche consiglio di Scott. Sono queste gare, questi sogni realizzati che rendono la vita degna. Bravissimo Filo! Sono sicuro che ben presto (se non è già successo) identificherai il prox tuo obiettivo.

Gianluca - 13/08/2024 10:36:24


Complimenti Filippo, a te e a tutta la crew per averla portata a casa. Non posso nemmeno immaginare quanto sia dura con quelle condizioni atmosferiche. Siete riusciti ad affrontare tutte le situazioni e le avversità che si sono presentate nel corso del viaggio. Come sempre molto bello il racconto, grazie per condividerci le tue esperienze e avventure. PS: Mi aspetto una puntata di Buckled dedicata e una serata in negozio per vedere la fibia (che sembra proprio fighissima :) ).

Davide Ferrara - 13/08/2024 09:13:35


Mamma mia, Filo… che avventura! Solo un runner “tosto” come te poteva farcela. Against all odds, si dice in inglese, no? Contro tutto e tutti. E il fatto che avessi l’appoggio della tua famiglia e di Giuliano non può che rendere l’esperienza ancora più indimenticabile. A volte si abusa degli aggettivi “grande”, “immenso”… ma se c’è un’occasione in cui non mi sembrano fuori posto è proprio questa. RESPECT!

Emilia K. - 13/08/2024 08:56:47


Filippo... che ti devo dire... ho letto tutto di un fiato, come se fossi lì, di nuovo, a respirare quell'aria infernale e a rivivere quei stati strani di stordimento e poca lucidità. Sei stato straordinario ad affrontare tutte queste difficoltà che solo pochi riescono veramente a rendersi conto cosa vuol dire correre in Valle della Morte. Tu ce l'hai fatta perché sei forte ma anche fortunato... avere la crew giusta buoi dire essere già a metà strada e non intendo persone super preparate nel endurance, ma le persone come Ceci con le ciabattine bianche col pelo... chissà, se avessi io un membro della crew così, forse ce l'avrei fatta. complimenti per tutti, siete davvero una squadra avvincente! ... e poi sono contenta di aver un piccolo contributo nella Tua grande Avventura! un abbraccio! Risposta: Grazie @Emilia, ti ho pensato molto in quei momenti! Un abbraccio e grazie Filippo

Luciano - 12/08/2024 23:07:20


No comment, secondo me ci sono limiti dai quali bisogna stare lontani, il rischio è sempre troppo alto anche se capisco la soddisfazione di arrivare alla fine! Non mi torna il conto tra cibo solido e liquidi …..complimenti comunque…. Bravo e bravi tutti e quattro! Risposta: Ciao @Luciano, cosa non ti torna nel conteggio tra liquidi e solidi? Cmq visti i problemi che ho avuto non torna neanche a me! ? Filippo

Yurima Gonzalez - 12/08/2024 21:39:29


Leggo sempre con immenso piacere il racconto delle tue imprese ma questa dobbiamo definirla VOSTRA :-D . Come sempre sembrava di essere lì con voi. Congratulazioni davvero, Cecilia è cresciuta tantissimo ed è bellississima!. Le ciabatte col pelo for life! Un abbraccio siete stupendi!

Giacomo Maggiore - 12/08/2024 20:59:00


20 minuti divorati all'alba prima di uscire a correre nel "caldo milanese". Grande lezione sulla gestione degli imprevisti e sul lavoro di squadra, bravi tutti!

alessandro nibbio - 12/08/2024 10:21:12


Che dire Filo..dalle tue parole si capisce che vivere e finire questa gara è un risultato che non è solo legato solo alla devastante prestazione sportiva ma anche da tutti i fattori esterni, la tua squadra i tuoi affetti, la macchina, l'alimentazione e tanti altri milioni di particolari che neanche si possono percepire se non vissuti direttamente. Ti ho seguito passo dopo passo è onestamente non credevo di vedervi al traguardo. Complimenti veramente! Sulla domanda di cosa fare dopo... credo sia giunta l'ora di organizzare una tua gara una ultrawildcazzomannaggia dove ci devi mettere dentro tutta l'esperienza che hai accumulato in questi anni dal Team Salomon Carnifast a oggi! Ciao e grazie!

Fabrizio Giorgiano - 12/08/2024 00:18:04


Congratulazioni Filippo. La tua determinazione è stata premiata, così come la voglia di non arrenderti mai e di fare meglio. Una narrazione da ascoltare Grazie anche a Giuliano Irene e Cecilia per il sostegno e per averti affiancato lungo il percorso non facile e pieno di imprevisti....